Figlia ribelle: condannata la madre troppo severa

Impensabile giustificare un metodo educativo ‘violento’ quale reazione a comportamenti viziati, maleducati o provocatori della figlia minore, ponendo, quindi, madre e figlia in un rapporto di parità e di reciproche offese

Figlia ribelle: condannata la madre troppo severa

Colpevole di maltrattamenti la madre troppo severa che ricorre ad un metodo educativo ‘violento’ a fronte dei comportamenti aggressivi, provocatori e viziati della figlia ribelle.
Questa la prospettiva adottata dai giudici (sentenza numero 25518 del 10 luglio 2025 della Cassazione) per rendere definitiva la condanna di una donna, posta sotto accusa dalla figlia, escludendo l’ipotesi meno grave del mero abuso dei mezzi di correzione.
Scenario della vicenda, risalente a quasi sei anni fa, è la provincia abruzzese. A finire sotto processo è una madre, denunciata dalla figlia minorenne e accusata, in sostanza, di avere sottoposto lei e la sorella, tra le mura domestiche, a comportamenti violenti.
Consequenziale l’accusa a carico della donna: maltrattamenti in famiglia. Impossibile, secondo la Procura, ridimensionare i fatti e ipotizzare un mero abuso dei mezzi di correzione.
Questa visione viene condivisa dai giudici di merito. Così, la donna si ritrova condannata, sia in primo che in secondo grado, per il reato di maltrattamenti in famiglia.
Col ricorso in Cassazione, però, la difesa prova a smontare le valutazioni compiute in Appello. In questa ottica, l’avvocato sottolinea, innanzitutto, l’assenza di una concreta individuazione di episodi specifici di maltrattamenti. Non a caso, sin dalla genesi del procedimento, la denuncia sporta da una delle due figlie contiene un racconto in cui è solo definita la madre come persona autoritaria, severa, solita ad usare le mani e ad insultarla, e, secondo il legale, tale racconto rispecchia il comportamento comune e naturale di una madre severa nell’educazione di una figlia che tiene comportamenti discutibili.
Per arricchire il quadro, in tale ottica, poi, il legale osserva che diversi testimoni hanno riferito di discussioni reciproche tra madre e figlia. In particolare, un’insegnante ha spiegato di avere, all’epoca, appreso di rapporti conflittuali, e una psicologa scolastica ha raccontato non di atti di violenza subiti dalla ragazza bensì di difficoltà della ragazza nelle relazioni all’interno del suo nucleo familiare, e un’altra insegnante ha fatto riferimento a problemi relazionali della ragazza con la madre, problemi dovuti alla sua insofferenza per le regole. Su un altro fronte, poi, il legale pone in evidenza elementi probatori che smentiscono uno stato di soccombenza della figlia nei confronti della madre, anche perché dal racconto di una amica di famiglia è emerso che la figlia gridava alla madre, la azzittiva, non perdeva occasione per aggredirla, dimostrandole mancanza di rispetto, pretendendo di imporsi. Nello stesso senso, poi, anche quanto riportato da un’insegnante, la quale ha ricondotto il comportamento della ragazza ad insofferenza al rispetto delle regole, ricorrendo anche a scenate in pubblico per reagire ai “no” della madre. E anche altri testi hanno evidenziato la tendenza della ragazza a istigare verbalmente e fisicamente la madre e a mancarle di rispetto, nonostante che la donna facesse di tutto per assecondare le figlie, palesemente viziate. E Perfino la stessa ragazza che ha denunciato la madre ha ammesso, sottolinea il legale, di fare una vita agiata con tante attività extrascolastiche.
A contrastare con una presunta condizione di soccombenza della ragazza ci sono, poi, secondo il legale, i comportamenti da lei tenuti dopo i presunti maltrattamenti: una volta si è recata a fare funambolismo; un’altra volta, a fronte di un “no”, è uscita comunque con gli amici, rendendosi irreperibile; in un’altra occasione ha usato contro la madre alcune mosse di judo; un’altra volta ancora, a fronte del rifiuto della ragazza di andare a scuola, la madre le ha dato uno schiaffo e per risposta la ragazza ha lanciato una spazzola contro la madre e così l’ha ferita. Infine, pure il padre della ragazza ha riferito che la figlia reagiva, anche fisicamente, alla madre alla quale poteva far male, a differenza della donna che non ne aveva la forza.
Per chiudere il cerchio, infine, il legale osserva che, come riconosciuto anche in Appello, la donna ha agito con l’intenzione di educare le figlie e ciò esclude il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia.
Nonostante le obiezioni difensive, però, i magistrati di Cassazione ritengono comunque sacrosanto confermare la condanna emessa in Appello.
Nessun dubbio, quindi, sulla colpevolezza della donna, a fronte dei maltrattamenti da lei compiuti ai danni delle figlie.
Analizzando nei dettagli la vicenda, i giudici di terzo grado condividono quanto osservato in Appello: quanto alla prova dell’abitualità delle condotte maltrattanti, i comportamenti descritti dalle figlie della donna hanno riguardato il loro vissuto quotidiano, e proprio la reiterazione di quelle condotte nel tempo rende ragionevolmente difficile descriverle nel dettaglio, isolandole dal punto di vista temporale. Palese, comunque, lo scopo della donna: i maltrattamenti avevano infatti ad oggetto i metodi violenti e aggressivi con la madre intendeva educare le figlie. E questo dettaglio è fondamentale, poiché integra il delitto di maltrattamenti in famiglia – e non quello di abuso dei mezzi di correzione – la consumazione, da parte del genitore nei confronti del figlio minorenne, di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora essi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui il genitore è portatore, in quanto l’uso sistematico di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del minore, anche se sorretto da animus corrigendi, configura il reato di maltrattamenti in famiglia, sottolineano i giudici di Cassazione. Difatti, non sono tollerate dall’ordinamento quelle condotte del genitore che travalichino i limiti dell’uso dei mezzi di correzione, potendosi ritenere tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tendano cioè alla educazione del figlio, quindi, allo sviluppo armonico della personalità, sensibile ai valori della tolleranza e della pacifica convivenza, senza trasmodare nel ricorso sistematico a mezzi violenti che contraddicono tali fini formativi.
In tale ottica, è impensabile giustificare, nella vicenda oggetto del processo, un metodo educativo ‘violento’ quale reazione a comportamenti viziati, maleducati o provocatori della figlia minore, ponendo madre e figlia in un rapporto di parità e di reciproche offese, precisano i magistrati di Cassazione.
Secondo quanto appurato tra primo e secondo grado, al fine di contenere le provocazioni della figlia – normali, peraltro, per una ragazza adolescente –, la donna ha adottato un metodo educativo improntato alla sopraffazione fisica. Ma, stante la posizione del genitore e la sua responsabilità nei confronti della figlia minore, non viene a giustificare il comportamento della madre il carattere aggressivo e ribelle della figlia, anche tenendo presente che, comunque, non sono emersi comportamenti violenti della minorenne ai danni della madre, se non come reazione alle percosse da lei subite per mano della donna.
In ultima battuta, poi, i magistrati di Cassazione ribadiscono che, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale sia finalizzata, fin dalla loro rappresentazione iniziale, la serie di condotte tale da cagionare le abituali sofferenze fisiche o morali della vittima, essendo, invece, sufficiente la sola consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima. E tale dolo non viene meno là dove le condotte siano state adottate per finalità educative, come nella vicenda in esame, poiché proprio il ricorso ad un metodo educativo improntato alla sopraffazione e al ricorso alla violenza ha costituto il collante unificante, dal punto di vista del dolo, della condotta maltrattante compiuta dalla donna.

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